25.3.07

Giacomino


Questa notte sono venuti a riprendere Giacomino.
Erano oramai due mesi che Giacomino stava con me e mi ci ero affezionato. Giacomino ora non mi sorriderà più, seduto sul carrello della mia macchina da scrivere, ma io sono contento lo stesso.
È una storia vecchia di due mesi, dunque.
La mezzanotte era passata da parecchio e io continuavo a raccontare le mie piccole vicende alla macchina a scrivere che poi le raccontava in blu al foglio bianco.
Mi parve, a un tratto, di sentire un fruscio d’ali fuori al balcone e interruppi il mio lavoro. Effettivamente era un fruscio d’ali. Forse un piccione sperduto.
Nella mia lontana giovinezza, andavo a cogliere di notte gli usignoli nel loro nido, e gli usignoli – dicono- dormono con gli occhi aperti. Spensi la luce, socchiusi con estrema cautela le imposte del balcone, allungai lentamente il braccio. Sentii due aluzze tiepide agitarsi fra le mie dita: doveva essere un tordo, più che un colombo.
Richiusi le imposte e riaccesi la luce.
Non era un tordo: era un bambinello alto una spanna, con un camicino bianco che gli arrivava fin sui piedini, con la testolina ricciuta e con due aluzze sulle spalle.
Era molto spaventato, ma io lo accarezzai con dolcezza ed egli sorrise, guardandomi coi suoi occhietti neri e rotondi.
Gli dissi qualcosa, ma non mi rispose: non sapeva ancora parlare. Alzò il braccino e mi indicò la sveglia. Lo feci sedere sul tavolo e gli misi davanti la sveglia. Cominciò a giocare e, ogni tanto, mi guardava e rideva mostrandomi due dentini piccoli come grani di riso.
Io allora feci notare al buon Dio che non era una buona cosa mandare in giro di notte delle anime così piccole, delle anime di bambini che non sanno ancora parlare.
Il buon Dio non rispose e io ripresi a pestare sulla macchina.
Il bambinello abbandonò la sveglia e guardò l’ordigno con enorme interessamento. Era un affarino alto una spanna, pesava quanto una noce: lo misi a sedere sul carrello della macchina e ripresi a scrivere. Si divertiva; quando sentiva suonare il campanello, mi guardava e rideva: aspettava con il ditino alzato che suonasse il campanello.
Presi a scrivere più in fretta, poi ancora più in fretta perché il campanellino suonasse più spesso.
“Ti chiamerò Giacomino” comunicai al bambinello, e l’omarino mi tese le braccia: aveva sonno.
Lo misi a dormire in una tasca della mia vestaglia di lana: poi chiusi la tasca con uno spillo e appesi la vestaglia all’attaccapanni del mio studio.
Per due mesi Giacomino mi fece compagnia. Ogni notte lo toglievo dalla tasca della mia vestaglia e lo mettevo a sedere sul carrello della macchina da scrivere. E Giacomino se ne stava fermo, immobile, e, quando il campanello suonava, alzava il braccio, mi guardava e sorrideva.
Era un cosino alta una spanna e pesava quanto una noce: non parlava mai, non piangeva, era un a piccola anima silenziosa.
Non volava neppure: stava seduto sul carrello della mia macchina da scrivere e aspettava che suonasse il campanello.
Una volta una manina gli scivolò sul foglio: io pestavo sui tasti a capo basso e, quando me ne accorsi, era troppo tardi. Quando me ne accorsi, guardando i foglio, che nell’ultima riga mancava un’intera parola, era troppo tardi. La parola era scritta tutta sulla manina di Giacomino. Era una parola banale “pipa”.
Giacomino non pianse, ma io fascia la piccola mano con un angolino di fazzoletto e, con un po’ di fil di ferro, costruii una ringhieretta di protezione sul carrello della macchina da scrivere.
Alla domenica, quando c’era il sole, salivo in bicicletta con Giacomino nascosto dentro il maglione. Poi, quando arrivavo in un prato solitario, legavo una lunga funicella al braccio di Giacomino e lo facevo volare.
Ora Giacomino non mi guarderà più, seduto sul carrello della mia macchina da scrivere: ma io sono contento, anche se ieri sera sono venuti a riprendere Giacomino.
Era passata di parecchio la mezzanotte e qualcuno ha bussato alla finestra. Ho aperto ed è entrata una giovane donna con un candido camicione e due alette sulle spalle.
“Sono due mesi che lo cerco” mi ha spiegato. “Siamo caduti tutt’e due da un balcone del quarto piano. Si ricorda? Eravamo sul Corriere il giorno dopo” ha aggiunto con una punta di vanità. “Anche lui era sul giornale. Così piccolo, già sul giornale. Siamo caduti tutt’e due dal quarto piano: una ringhiera rotta. Ma lui è partito prima di me e quando, dieci minuti dopo, sono partita anch’io non m’è più riuscito di trovarlo. Si era smarrito. Ho cercato per due mesi e ora l’ho ritrovato. La ringrazio, signore.”
La giovane donna ha preso fra le braccia il suo Giacomino e se n’è andata. Ma Giacomino piangeva e tendeva la manina verso la mia macchina da scrivere: voleva rimanere con me a sentir suonare il campanello.
Richiuse le imposte, ho ripreso a lavorare. Accidenti, però, che fatica a metter giù due parole ora che Giacomino non mi guardava più, seduto sul carrello della macchina.
Ma sono contento. Bisogna che mi convinca che sono contento. Chi sa cosa dirà il buon Dio quando vedrà che, sulla manina di Giacomino, c’è scritto “pipa”? Non sono riuscito a cancellare.
Non bisognerebbe mai scrivere con il nastro copiativo.
Vi ho parlato di una strana faccenda e ne è uscito un bel pasticcio.
Ma cosa ci posso fare? Adesso che Giacomino non mi guarda più, seduto sul carrello della macchina, io fatico in modo enorme a mettere insieme quattro parole.


(Giovannino Guareschi, Lo Zibaldino, pag. 9-12)


Oggi un altro regalo per i lettori che incapperanno in queste pagine…
Un’altra perla per tutti coloro che hanno voglia di sentire profumo di buono.
Io rileggo spesso il mio amato Giovannino Guareschi.
Aspetto i commenti di altri suoi estimatori.

MadamaES

1 commento:

Morgana ha detto...

che delicatezza, che emozioni!!! Delicato, profondo, meraviglioso!!!
Elisa